La campana di vetro – Sylvia Plath

La campana di vetro

Autore: Sylvia Plath

Editore: Mondadori

Nel 1963 in Inghilterra, poco prima di quel drammatico 11 febbraio, viene pubblicato il romanzo La campana di vetro, autrice Victoria Lucas.

Sotto questo pseudonimo si nasconde Sylvia Plath, una donna dall’animo travagliato e logoro che per tutta la sua breve vita ha combattuto contro se stessa ma ha perso. O forse no…

La Plath nei suoi diari descriveva la morte come una liberazione da quella campana che la teneva prigioniera

” Per chi è chiuso sotto una campana di vetro, vuoto e bloccato come un bambino nato morto, il brutto sogno è il mondo. Un brutto sogno”

 

 

La fatica di vivere, di essere assoggettata alle regole sociali, alle necessità quotidiane che le sottraevano tempo allo scrivere, la morte del padre ed il profondo senso di abbandono che ne è derivato, le aspettative di gloria e fama schiacciate da alcuni rifiuti editoriali sono stati un peso eccessivo da sostenere.

In questo breve romanzo Sylvia Plath parla un po’ di sé attraverso la protagonista Esther. Una giovane studentessa che vince una borsa di studio che le permette un soggiorno spesato a New York ed un tirocinio in una rivista di moda.

La giovane però non è mai totalmente coinvolta nell’esperienza lavorativa verso cui si mostra svogliata e distratta e neanche in quella sociale a cui si avvicina per poi rifuggire apaticamente.

Già dalle prime pagine il carattere di Esther si rivela ambizioso ma severo, intransigente. Grandi obiettivi ma scarsa capacità di accettare compromessi o mettersi in gioco. Poca forza di gestire le porte chiuse e le difficoltà.

Nonostante il contesto urbano in cui si trovi sia ricco di stimoli e spunti, nonostante i continui richiami ad una vita sociale attiva ed appagante, la ragazza non sceglie o se lo fa, le esperienze negative la devastano. Diventa maniacale in alcuni atteggiamenti, è schiva a legarsi ad amicizie vere, si confronta continuamente con temi comuni all’età studentensca (la verginità, il successo) in un teatrino di eterna indecisione.

 

Quando la morale la richiama ad argomenti più consistenti come la vita, la morte, il concepimento, Esther si sente schiacciata e percepisce con forte disagio la presenza di una sorta di campana di vetro sopra di lei che la tiene prigioniera. Fa delle scelte drastiche come non volere figli, frequentare uomini assumendo false identità, rifiutare un’alternativa di studio per non fallire di nuovo.

In questo caos di emozioni e sentimenti la famiglia di Esther non le fornisce il supporto che vorrebbe. Il padre, morto da tempo, viene mitizzato come quell’amico, maestro, confidente che non potrà mai essere. La madre è una figura ambigua, attenta ma spesso anaffettiva, sempre vicina ma poco comprensiva.

Nella storia, Esther, dopo aver stretto alcune amicizie che sembrano comunque rimanere superficiali al suo cuore come Buddy, suo (dis)amato ragazzo di sempre o Joan, torna a Boston per scoprire di non essere stata ammessa ad un corso per lei fondamentale. Ad un iniziale rifiuto di tutto e tutti, paventando l’idea di diventare suora, decide per esperienze alternative avvicinandosi al mondo con mano esitante.

Si getta di slancio per una pericolosa pista da sci, consapevole di farsi male e felice di essere padrona del suo destino seppur per pochi secondi. Ingerisce una serie di pasticche per porre fine alla sua difficile esistenza ma poi si lancia alla ricerca di qualcuno che abbia le doti giuste per farle perdere la verginità.

Non teme di mostrarsi per quello che è e non rifiuta le cure psichiatriche che le vengono prescritte. La prima esperienza con l’elettroshock insieme al dottor.Gordon è devastante, dolorosa e violenta. Forse lo è ancor di più la vista di tutte le persone che incontra nella clinica e che appaiono svuotate, prive di identità e fragili.

Un rapporto ambiguo e poco approfondito nel testo con la dottoressa Nolan la riavvicina alla terapia da cui alla fine sembra trarne sollievo. I demoni che cercano di afferrarle i pensieri si dissolvono nel nulla dopo le sedute, lasciandola in pace.

Il lungo soggiorno nella clinica psichiatrica è vissuto senza drammi. Probabilmente le pressioni quotidiane come la scelta di un lavoro, una sistemazione, i rapporti sociali,  perdono consistenza tra le pareti della sua stanza di ospedale e la fanno sentire libera da costrizioni o decisioni difficili. L’idea di tornare a casa infatti sembra crearle ansia ed apprensione. Non farà mai nulla per mostrarsi migliorata ma neanche tenterà mai di peggiorare la sua situazione. Continuerà ad essere coerente con tutti e comportarsi senza filtri, varcando alla fine del libro una porta dove nessuno tranne lei può sapere che cosa nasconde.

Il fatto di aver letto il libro di Connie Palmen, Tu l’hai detto, è sicuramente stato decisivo per il contenuto di questo articolo. Senza tale lettura, il romanzo della Plath assumerebbe i contorni di una storia a tratti superficiale (nulla viene approfondito, né ambientazione né personaggi) e nebulosa. La storia di una ragazza confusa e forse immatura che non arriva mai da nessuna parte.

Alla luce invece della vita e della personalità della Plath su cui la Palmen ha scritto in maniera magistrale, la storia di Esther assume un aspetto completamente diverso. La ragazza che ha preso vita sulla carta e colei che ha tenuto in mano la penna si confondono l’una con l’altra, non solo nelle esperienze di vita ma anche nelle emozioni, nei disagi. Quel senso di prigionia che ha accompagnato Esther è lo stesso che provava la Plath quando sentiva bussare sulla campana l’estro della scrittura ma non sapeva come farlo entrare.

Abbiamo letto una storia autobiografica da cui non è facile tirare le somme poiché troppo complesso è stato l’animo della Plath. Emerge sicuramente quel mal di vivere, quel senso di inadeguatezza, quella voglia di riscatto e quel rancore che poi sono alla base di molte sue poesie.

Forse questo libro per la Plath è stato un modo per chiedere aiuto, forse per farsi capire da chi le stava vicino ed era vittima dei suoi eccessi, dei suoi isterismi e malinconie. Forse è stata solo la necessità di porre nero su bianco una visione più pulita e più ordinata di quanto hanno mostrato i suoi diari, di quello che aveva dentro.

Consigliato a chi vuole una storia introspettiva, buia ed in cui è importante andare oltre la narrazione, a chi vuole provare a capire chi era Sylvia Plath attraverso non tanto quello che ha vissuto ma come lo ha fatto. Consigliato anche  a chi ha letto la Palmen e ne è rimasto entusiasta e vuole ora conoscere una parte della storia da un punto di vista diverso di quello di Ted.

 

 

 

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