Titolo: Tra amici
Autore: Amos Oz
Editore: Feltrinelli
- Copertina: ♥♥♥/5
- Storia: ♥♥♥♥♥/5
- Stile: ♥♥♥♥♥/5
Il kibbutz è una realtà cui provi a dare una forma con i pezzi “del sentito dire” ma che rimane sempre un po’ nebulosa. Una comune, dicono molti, ma è un termine un po’ riduttivo e semplificativo di un mondo che ha ben altre e più numerose sfaccettature.
L’idea del kibbutz affonda le origini agli inizi del XX secolo. Si tratta di una forma associativa volontaria, sulle terre israeliane, che unisce persone che vogliono basare la loro vita sul principio di uguaglianza e su tutte le regole che ne derivano per rispettarlo.
Nel kibbutz non girano soldi perché ognuno ha una sua occupazione da svolgere a favore di tutti i membri con cui poi ne divide i frutti. Mansioni singole per fine comune.
Questa grande famiglia, che si viene a formare, fa di tutto per essere autosufficiente, chiusa ad interferenze esterne. I membri si suddividono poi in comitati che decidono o gestiscono affari comuni come matrimoni, divisione dei lavori, indirizzo di studio dei più giovani.
La nota dolente e il limite del kibbutz è proprio questo. Questa grande famiglia è chiusa al diverso e con esso non vuole mescolarsi. Nessuno è libero di decidere per sé, pena l’espulsione. L’uguaglianza è vissuta in senso stretto come soppressione di qualsiasi gesto autonomo che esuli dall’ordinario, di qualsiasi cambiamento, di ogni genere di individualismo salvo esso sia approvato e comunque volto al soddisfacimento della comunità.
Un sistema forse eccessivo che non ammette deroghe. Le donne al suo interno godono di assoluta uguaglianza con gli uomini ma proprio per questo l’abbigliamento viene uniformato, la femminilità (come potrebbe esserlo un velo di rossetto) abolita e non accettata.
Detto questo, abbiamo preso in mano il libro di Oz, il suo primo che leggiamo, molto curiose e piene di aspettative.
Con parole pulite, chiare, fluide, l’autore ci fa rivivere attraverso una serie di racconti, la vita del kibbutz di Yekhat negli anni cinquanta. Questi racconti sono legati tra loro da un filo sottile che il lettore afferra nel corso della storia di ciascuno di loro, poiché tutti i protagonisti fanno parte della stessa comunità e quindi sono gli uni legati agli altri.
C’è un giardiniere timido, Zvi, che sente sulle spalle la tristezza del mondo e che la racconta a tutti per alleggerirsene. C’è la riflessiva e mite Osnat che è stata abbandonata dal marito ma che continua a vivere la sua quotidianità senza tragedie, semplicemente spostando le sue preoccupazioni.
C’è il giovane Moshe che deve lasciare il kibbutz per andare a trovare suo padre che è malato. Quando gli viene chiesto chi incontri durante la sua camminata, egli risponde “ Estranei” perché è estraneo, non conosciuto, quello che c’è fuori.
Questa figura disturbante, che intacca l’equilibrio metodico del kibbutz è rappresentata ancor di più da Yotan. Il giovane ha ricevuto un offerta dallo zio per studiare in Italia. La madre prova a convincere qualche membro dell’assemblea, poiché solo con la votazione favorevole il ragazzo potrà partire. Ma sin da subito le viene fatto capire che l’uscita dal kibbutz e una laurea, non necessaria alla comunità, non sarebbero stati accettati.
Un affresco di figure popolano questo quadro. Alcune passive, o abituate, o magari ignare di come potrebbe essere una realtà diversa. Altre convinte di un sistema che cerca di mettere mano alla natura umana, alle sue inclinazioni, forse in maniera un po’ troppo serrata.
Martin, anziano ed ammalato veterano del kibbutz, sino alla fine porta avanti i principi dell’associazione come dogmi vitali
…non aveva in una stanza né bollitore né tazze personali per una questione di principio: l’accumulo dei beni è la maledizione dell’umano consenso, diceva. La natura delle cose è che a poco a poco diventano padrone dell’anima e la rendono schiava”
Arriviamo alla fine del libro con la sensazione di aver visto un film-documentario. Di quelli lenti, rilassanti, che ti aprono le porte ad un mondo nuovo che puoi visitare con tranquillità, decidendo dove fermarti.
Una scrittura semplice, senza ricercatezza ma piacevole. L’idea di raccontare il kibbutz attraverso la vita di alcuni dei suoi membri e sotto forma di racconto è stata vincente ed ha evitato di romanzare troppo l’argomento.
Oz ci ha introdotto in un mondo che altrimenti non potremmo conoscere e l’ha fatto senza prendere posizioni rigide ma lasciando qua e là spunti per potersi fare una propria idea.
Bello, molto interessante e soprattutto all’altezza delle nostre aspettative. Non ci resta che recuperare gli altri scritti di questa sapiente penna. Abbiamo quindi dato 5 su 5 stelle su stile e storia. Della foto in copertina non siamo convinte. Le mille sfumature che Oz ci regala potevano forse trovare un’immagine più espressiva.
Consigliato ai curiosi, a chi ama storie di vita vera. Adatto agli amanti della narrativa di qualità, a chi vuole saperne di più di tradizioni e culture distanti dal proprio vissuto.