L’equazione del cuore di Maurizio de Giovanni

Ci costruiamo la nostra bolla di felicità.

Le nostre abitudini, i gesti che ci fanno sentire sicuri, tutto messo insieme per un equilibrio mentale.
Ma le fondamenta? 
Su cosa poggia questo castello di carte che chiamiamo vita?
Un soffio.
Solo un soffio di vento, una breve telefonata, una distrazione inaspettata e il castello non c’è più, ineluttabilmente.
Questa è la vita del professor Massimo, da otto anni su un lembo di terra a misura d’uomo, chiuso nel suo nido autosufficiente. Il mondo fuori.
Fino a quel soffio
Un cuore fermo può ripartire se avverte quella folata che gli lacera la corazza?
Quale equazione va calcolata per rimettere in moto un muscolo fermo da tempo? 
Un giorno siamo sufficienti a noi stessi e solo di striscio ci curiamo veramente di chi ci circonda. Quello dopo ci troviamo schiacciati da una vita appesa a un filo, verso cui non sentiamo un vero trasporto emotivo, ma di cui tocca prenderci cura.
Così Massimo, matematico di professione, si trova nonno all’improvviso e soprattutto ha bisogno di risolvere un’equazione di cui conosce troppe poche variabili.
Un’equazione che è una risposta a quanto è successo, all’ospedale, alla perdita.
Per vincere la morte bisogna essere soldati, ma schierati in due.
Nonno Massimo e Alba, l’ucraina che si prendeva cura del piccolo Francesco.
Lui ve l’ho presentato sopra. E’ un matematico, pragmatico e razionale, vede tutto in termini completi e scomponibili come numeri.
Di fronte alla tragedia che la vita gli impone è stato difficile provarne empatia. Il suo atteggiamento schematico e glaciale lo rende asettico, emotivamente piatto.
Anche il suo scavare negli eventi, provare a fare luce negli angoli bui è terribilmente algebrico, filtrato da ragionamenti logici e di calcolo.
Da un poeta come de Giovanni mi sarei aspettata una storia straziante, commovente, intima e credibile. Un protagonista che fa breccia, che ti travolge violentemente.
Ho letto invece un bel romanzo, scorrevole, equilibrato, dalla trama forse un pizzico surreale.
È quel di più che mi è mancato. Quel sollevare gli occhi dalle parole e fare un respiro profondo per riprendere il controllo.
Con la saga del commissario Ricciardi si perdeva quel controllo, si veniva catapultati nella storia senza scampo, col cuore in mano.
È un bel libro, e come dice la mia amica di vita, dovrei smettere di cercare ciò che non c’è più.
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