Titolo: La prima verità
Autore: Simona Vinci
Editore: Einaudi
Pagine: 397
Prezzo: eur 19.00 su IBS in brossura
- Copertina: 5♥ su 5
- Storia: 5♥ su 5
- Stile: 5♥ su 5
Dove siete custodi invisibili e pazienti?
Una candela accesa in mano
il passo traballante ma fiero
la fiducia del fiato trattenuto
nelle tenebre di pietra
di questo silenzio che urla.
1153 pazienti, due psichiatri e una considerevole quantità di infermieri di cui la maggior parte non diplomati.
Nell‘isola greca di Leros c’è un istituto psichiatrico dove i malati vengono lasciati sporchi, a gironzolare tutto il giorno sotto un sole cocente, costretti a mangiare con un piatto inchiodato a terra che dividono con i gatti.
Pieni di ferite, malnutriti, senza igiene. È dentro che sono morti.
Angela fa parte di quei 21 volontari che sono sbarcati lì con l’umanità in tasca, la voglia di cambiare il mondo.
Prova a fare del suo meglio.
Bonifica, sistema, migliora. Scava, aggiusta, butta via. Parla, si avvicina, dona carezze.
Ci vuole coraggio a rimanere tre mesi in un posto del genere. Non ci sono solo le urla di chi è rimasto ma anche quelle di chi non c’è più. Anime incastrate in un limbo di solitudine, ancora in cerca della dignità perduta.
Qui, negli scantinati chiusi a chiave, nei corridoi umidi e trasudanti muffe senza tempo, Angela trova qualcosa a cui si attacca spasmodicamente.
La nasconde perché sa che quell’oggetto vuole raccontare da dove viene. E lei lo aiuta, riportando alla luce volti che non ci sono più.
La storia allora volge lo sguardo al passato e mostra un bambino con un sasso in bocca, un poeta con la sensibilità nel cuore, una ragazza lacerata che rifiuta sé stessa.
Nel romanzo ogni volto, sano o meno che sia, è popolato da voci sconosciute che sanno cose che nessun altro sa.
Ogni creatura in maniera costante o a intermittenza, una volta sola nella vita o quotidianamente, conserva nello sguardo che tutti intorno considerano spento, una sofferenza vigile e consapevole.
La realtà nella storia si intreccia con l’arbitrio dell’autrice senza creare contorni netti. Le radici di ciò che viene raccontato sono autentiche. L’Istituto psichiatrico o meglio definito lager di Leros è realmente esistito.
Le anime che hanno popolato quei corridoi luridi, quelle camerate dispersive, fanno ancora sentire le loro urla e la loro disperazione.
Oggi è un mostro di pietra in cui è proibito entrare, forse per paura che le leggende in esso racchiuse prendano il volo e diventino più reali.
La Storia, la dittatura, le alleanze internazionali hanno inciso negativamente sulla sorte dell’istituto che negli anni 60 ha raggiunto un esubero ingestibile tra malati e prigionieri di guerra.
Sarà l’entrata nell’unione europea della Grecia a portare alla luce il lager, grazie ad una fotografa italiana, Antonella Pizzamiglio che con il suo lavoro “Leros, anche il nulla ha un nome” ha dato immagini all’orrore e voce alle vittime.
Con uno stile crudo e senza sconto, Simona Vinci affronta coraggiosamente l’indicibile, mostrando una bestialità che tra le pagine ci si sofferma a dubitare che possa essere stata reale. Far prendere forma alla storia è stato doloroso e disturbante.
Andare avanti ha richiesto stomaco oltre che cuore. L’inaccettabilità di quanto viene descritto e che a fine romanzo diventa ancor più concreto fa venire voglia di gridare e gettare via un libro il cui contenuto svela un’orrore troppo, troppo immenso.
Una lettura importante, formativa e riflessiva perché è sempre bene ricordare quanto lontano si possa spingere il limite di brutalità di cui l’uomo è capace.
Il consiglio è di leggerlo per tenerlo a mente. Se avete qualche perplessità, su Internet andate a vedere il lavoro della Pizzamiglio (o cliccate qui) per levarvi il dubbio che quei volti così brutti eppure così belli nella loro innocenza e semplicità, non abbiano ancora e ancora il diritto di far sentire le loro voci