Eleanor Oliphant sta benissimo

Eleanor Oliphant sta benissimo è il primo romanzo di Gail Honeyman. Una storia dolceamara di forza, resilienza, dolore e umanità.

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Non puoi non affezionarti ad Eleanor. Alla sua sicurezza ossessiva, alle sue giornate maledettamente uguali, al suo totale disinteresse per l’integrazione sociale.

“Le spiace se la chiamo Eleanor…sa aiuterebbe al dialogo”. “Preferisco Signorina Oliphant”…Una certa distanza professionale è estremamente appropriata, credo, quando per esempio uno sconosciuto ti esamina il fondo del bulbo oculare in cerca di un tumoreo ti fruga tra i denti con uno strumento a forma di uncino. Oppure, per l’appunto, ti rovista nel cervello estraendone le sensazioni e lasciando che si depositino nella stanza, in tutto il loro imbarazzante orrore.

Eleanor è eccessiva e fuori luogo nella maggior parte dei contesti ma in maniera simpatica e spiazzante da sdrammatizzare la situazione con una bella risata.

Mi porse la giacca e io la guardai un istante prima di capire che dovevo appenderla. Non avevo un posto adatto, quindi la piegai meglio che potevo formando un riquadro, e poi la misi sul pavimento in un angolo dell’ingresso. Lui non parve granché soddisfatto, anche se non avevo idea del perché. Non aveva l’aria di essere una giacca costosa.

Non ha filtri e non conosce le regole sociali, i preconcetti, le convenzioni. Fa e dice ciò che noi stessi ci imbarazzeremmo anche solo a pensare.

Ed è proprio lei, ed il suo modo di essere,  a rendere leggero ed ironico un racconto in realtà drammatico.

Ti strappa grandi sorrisi anche se stai leggendo della sua profonda solitudine. Una solitudine che si autoinfligge per tenere chiusi in una stanza i pensieri legati al suo difficile passato ed una solitudine a cui la spingono gli altri.

Davanti al diverso, all’inusuale, alle stranezze di qualcuno, prendiamo le distanze (anche involontariamente) senza chiederci perchè e da dove vengono gli atteggiamenti od i comportamenti anomali. Non si scava, si lascia lo sguardo sulla superficie delle cose, isolandole.

“…mi chiesi se era così che funzionava in una famiglia: se avevi genitori, o una sorella, per dire, che sarebbero stati presenti, qualunque cosa fosse accaduta. Non che li potessi dare per scontati in quanto tali…ma semplicemente, quasi senza pensarci, che ci sarebbero stati se ne avessi avuto bisogno, indipendentemente da quanto male andassero le cose…”

Il muro della solitudine si rompe semplicemente senza giudicare ma accogliendo l’altro con le sue manie e stranezze cercando di far emergere la parte migliore che si nasconde in profondità. Quando ci si fida di sé stessi delle proprie capacità, si può provare a cambiare.

Da mettere in libreria!

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